Una relazione d’aiuto prevede l’incontro tra una persona che necessita appunto di aiuto e una persona che dovrebbe possedere le competenze professionali, emotive ed umane per potersi far carico di ciò.
Detta con le parole di Carl Rogers (1951) “una relazione in cui almeno uno dei due protagonisti ha lo scopo di promuovere nell’altro la crescita, lo sviluppo, la maturità ed il raggiungimento di un modo di agire più adeguato e integrato”.
Non basta voler aiutare una persona per riuscire a farlo bene. Non è un caso che diverse professioni sia per poter essere svolte sia per poter essere svolte bene necessitano di percorsi di formazione specifici (psicoterapeuti, assistenti sociali, educatori professionali, medici, tecnici della riabilitazione psichiatrica, infermieri, operatori socio sanitari, avvocati).
Aver cura dell’altro in un contesto professionale di cura e di aiuto non è affatto semplice, tanto più in contesti altamente problematici. L’esposizione ripetuta e reiterata nel tempo alla sofferenza dell’altro, infatti, può portare l’operatore impegnato in una relazione d’aiuto a sviluppare una serie di sintomi psicologici. La compassion fatigue (Figley, 2002) è il costo che tali professionisti possono avere entrando in contatto, ripetiamolo sempre in maniera ripetuta e reiterata, con il dolore dell’altro e può condurre a sviluppare un Disturbo post-traumatico da stress secondario, che presenta i classici sintomi di chi a seguito di un evento traumatico presenta una sintomatologia strettamente connessa a ciò che ha vissuto e che pervade la vita quotidiana.
Andando oltre nell’operatore impegnato in relazioni di aiuto può svilupparsi anche una cosiddetta traumatizzazione vicaria cioè una modificazione in negativo della visione delle cose, delle proprie credenze e modalità di percepire la vita, a seguito dell’esposizione sul lavoro a realtà altamente stressanti o addirittura traumatich. O ancora il burnout: una condizione di stress lavorativo (Freudenberg, 1974) o di esaurimento emotivo, depersonalizzazione e ridotta realizzazione personale (Maaslach, 1997). Non è un caso che il libro del 1997 della Maaslach si intitoli “Il prezzo dell’aiuto degli altri”.
Ma proviamo a girare la medaglia: come esiste una compassion fatigue esiste una compassion satisfaction, ossia la sensazione di star svolgendo il proprio lavoro nella relazione d’aiuto riuscendo a cogliere l’importanza della propria compassione per l’altro, sentendosi ben centrati ed equilibrati nel lavoro che si svolge, nonostante i “rischi” del mestiere. Inoltre, così come esiste una traumatizzazione vicaria esiste una resilienza vicaria, concetto molto giovane e fresco: l’entrare in contatto con la sofferenza dell’altro in contesti lavorativi in maniera costante può anche orientare positivamente la prospettiva di vita, le credenze e le percezioni del professionista, instillando in lui/lei un senso di speranza, o addirittura un senso di spiritualità, una maggiore autoconsapevolezza ed autoefficacia personali (Hernandez-Wolfe, Pilar, 2018), una maggiore centratura sul proprio lavoro e una migliore capacità di risoluzione dei problemi.
Come sviluppare allora resilienza in contesti simili? Innanzitutto, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha sottolineato come sia indispensabile che gli operatori impegnati in relazioni d’aiuto, soprattutto se lavorano in realtà aziendali od organizzative, si sentano sicuri e protetti, e cioè dotati di tutti i dispositivi di sicurezza. In contesti aziendali è importante poi dall’alto promuovere azioni tese a promuovere una resilienza organizzativa come “…l’abilità di un’organizzazione di progettare e incrementare comportamenti adattivi positivi a seconda della situazione nella quale ci si trova e riducendo al minimo lo stress correlato.” (Mallak. 1998).
A livello individuale è risultato e risulta importante attivare le self-care strategies, ossia tutte quelle strategie tese a promuovere la cura della propria persona, al di fuori del lavoro: impegnarsi in attività rilassanti, che facciano bene al proprio corpo e alla propria mente, che spezzino la routine di contesti lavorativi stressanti, il ricorso alla propria rete familiare, amicale e sociale più vasta.
Per tale motivo, è importantissimo e di grande aiuto poter contare su una buona rete amicale che spesso permette al lavoratore di sentirsi amato, e di avere valore per gli altri anche in contesti non lavorativi. Questo rafforza l'autostima, soddisfa i bisogni emotivi dell’individuo e permette di acquisire una nuova energia per affrontare il lavoro. Inoltre l'avere relazioni sociali soddisfacenti permette di trascorrere il tempo libero in attività rigeneranti e ricaricare le energie.
Gli studi concordano nell'indicare che buone e soddisfacenti relazioni amicali sono un fattore protettivo rilevante e permettono di recuperare energie e risorse da spendere al lavoro; viceversa relazioni amicali problematiche o assenti risultano essere un fattore di rischio per il burnout.
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